L’opera di John Ronald Reuel Tolkien si colloca nel solco di una tradizione molto viva nella cultura inglese, quella della narrativa fantastica. Sebbene all’inizio della sua carriera Tolkien fosse noto al pubblico come autore di un romanzo per bambini di grandissimo successo (tradotto in ben 25 lingue), The Hobbit, non si può certo definire ‘per ragazzi’ la porzione più importante della sua produzione, e cioè The Lord of the Rings e The Silmarillion, senza tener conto della sua opera di accademico (ricoprì per anni la cattedra di Lingua e Letteratura Anglosassone ad Oxford e collaborò, sempre ad Oxford, alla compilazione del New English Dictionary). Tuttavia, nonostante il successo riscosso da The Hobbit, sia pubblico che critica si divisero alla pubblicazione del Lord of the Rings tra entusiastiche recensioni – come quella di W. H. Auden – e altre riduttive, che videro nella la trilogia un libro per ragazzi troppo lungo, sfuggito di mano all’autore. Ma oggigiorno non possiamo non notare il vero e proprio culto sorto nei confronti dell’opera tolkeniana, culto nato immediatamente dopo la pubblicazione del Lord of the Rings e che solo negli ultimi anni è venuto prepotentemente alla ribalta. Ad esso è principalmente dovuta la riscoperta del Silmarillion, definito da molti un testo ‘difficile’ ad una prima lettura, certamente per stile, tono e contenuti lontano dal Lord of the Rings e lontanissimo da The Hobbit e dalle opere buffe che completano la produzione tolkeniana. Difficile nel Silmarillion è seguire lo svolgersi dei fatti per via dell’enorme arco di tempo che ricopre (ben tre ere); per via dell’elevato numero di personaggi che si muovono sulla scena, ognuno con il suo complicato nome elfico; difficile ancora per l’ampio uso di arcaismi, per il tono epico e pacato e per lo stile sintetico che caratterizza la narrazione. Eppure era proprio questa l’opera che, tra le proprie, il Professore amava di più e, paradossalmente, questo ne ha fatto un work in progress, una gestazione di decenni, trascorsi in una continua revisione di tutto quel materiale mitico e linguistico che Tolkien, mai soddisfatto e attentissimo ai particolari, aveva iniziato a buttar giù quando era uno studente universitario. In una lettera a Milton Waldman, la famosa n° 131, Tolkien ammette: “I do not remember a time when I was not building it” e ancora “Of course, such an overweening purpose did not develop all at once. The mere stories were the thing. They arose in my mind as ‘given’ things, and as they came, separately, so too the links grew.”. Il successo degli ultimi anni ha inoltre portato alla pubblicazione – curata da Christopher Tolkien – della History of Middle-Earth, che recupera e amplia i contenuti del Silmarillion e del Lord of the Rings grazie al ricco materiale inedito prodotto da Tolkien sull’argomento. I volumi che aprono la monumentale History (che consta di ben 12 volumi) sono le due parti del Book of Lost Tales – “the first substantial work of immaginative literature by J. R. R. Tolkien” – che ci ripropongono pedissequamente le vicende del Silmarillion, però nelle versioni originali. The Silmarillion deve infatti la nascita a Christopher Tolkien. Quattro anni dopo la morte del padre, questi decide di selezionare, riordinare e pubblicare l’opera. Nonostante Christopher definisca The Silmarillion come “a fixed tradition”, non nega come “as the years passed the changes and variants, both in detail and in larger perspectives, became so complex, so pervasive and so many-layered that a final and definitive version seemed unattainable”. Come ci ricorda il professor Kilby, che con Tolkien trascorse l’estate del 1966 nel tentativo di aiutarlo a dar ordine al manoscritto del Silmarillion e, al contempo, di offrirgli un giudizio oggettivo sull’opera, sembra che Tolkien, affaticato dal peso della vecchiaia e dei problemi di salute propri e della moglie, si dedicasse ben poco alla stesura definitiva dell’opera e che lui stesso ne vedesse la pubblicazione come un sogno difficile da realizzare. L’intervento del curatore è stato quindi massiccio: se The Silmarillion ci appare come un’opera organica lo dobbiamo esclusivamente a Christopher. Tutto del padre è invece lo stile, la creazione, la narrazione; il figlio non ha fatto altro che cucire insieme i più recenti materiali, cercando di rimanere il più possibile fedele al progetto paterno. Ma se nel Silmarillion è inevitabile trovare la mano del revisore (sebbene non nel testo, è comunque qualcosa la cui presenza è dichiarata nelle premesse), questo non accade nel Book of Lost Tales, dove Christopher – ancora come curatore – si limita al lavoro di filologo, fornendoci informazioni circa lo stato del manoscritto, il periodo di composizione di ogni racconto, i cambiamenti linguistici – da una precedente versione delle lingue elfiche a quelle successive – via via più complesse – e, inoltre, si premura di dare al lettore spiegazioni circa i passaggi più oscuri – rintracciando spesso teorie e idee evolutesi poi in maniera del tutto differente o addirittura abbandonate – costruendo così validi commenti ad ogni racconto, spesso arricchiti da confronti con la versione del Silmarillion e da testi poetici dello stesso Tolkien. Confrontando quindi il Book of Lost Tales e The Silmarillion possiamo tracciare l’evoluzione della mitologia della Middle-Earth, tanto più affascinante quanto più ci permette di comprendere come lavorava la mente creativa di Tolkien – come ci dice la Palusci, “proprio il gioco delle varianti e delle diverse versioni di uno stesso episodio mostra la peculiarità del metodo compositivo di Tolkien, con l’aggregazione e il continuo processo di revisione di storie, leggende e miti, incentrati sempre attorno agli stessi eventi, ma visti da prospettive e angolature diverse” – e permettendoci di recuperare il progetto originale di dare una mitologia all’Inghilterra mediante il recupero della leggenda di Ælfwine d’Inghilterra, di cui non v’è traccia nel Silmarillion. Scarica la Tesi Completa [157 pag - 1 Mb]