“Affixing «labels» to writers, living or dead, is an inept procedure, in any circumstances: a childish amusement of small minds: and very «deadening», since at best it overemphasize what is common to a selected group of writers, and distracts attention from what is individual (and not classifiable) in each of them, and is the element that gives them life (if they have any)”. Tolkien scriveva queste parole nel 1971, due anni prima della sua scomparsa, allorquando, dopo essere stato investito dal successo, ma anche dalle critiche, per la pubblicazione del Lord of the Rings, veniva infine etichettato come sostenitore della didattica morale. A tale accusa si limitò a rispondere che l’unico intento della sua opera era il seguente: “To be enjoyed as such: to be read with literary pleasure”. Tuttavia egli era consapevole che questa non era l’unica definizione inesatta o ingiusta, né la più pesante che gli fosse mai stata (o che gli sarebbe stata) attribuita. Già con la pubblicazione di The Hobbit, infatti, era stato investito da lodi e da critiche. Di quest’opera l’autore avrebbe ricordato, quasi 20 anni dopo l’uscita, l’origine inaspettata, avvenuta mentre correggeva delle composizioni scolastiche: “On a blank leaf I scrawled: «In a hole in the ground there lived a hobbit». I did not and do not know why”. Quella frase avrebbe dato origine, oltre che ad un racconto, anche alla creazione di un popolo particolare, gli hobbit appunto, e alla richiesta di un seguito da parte dell’editore. Il seguito di The Hobbit sarebbe stato il Lord of the Rings, ma l’opera stavolta era molto diversa. Tolkien avvertiva che essa ingigantiva e acquisiva sempre più numerosi e stretti legami con il Silmarillion, un insieme di storie iniziato per soddisfare un desiderio personale, come confesserà più tardi: “Once upon a time […] I had a mind to make a body of more or less connected legend, […] which I could dedicate simply to: to England; to my country”. Egli avrebbe desiderato pubblicare le due opere insieme, ma il Silmarillion non era pronto, così aveva dato alle stampe la trilogia, dichiarando all’editore Stanley Unwin: “It is written in my life-blood, such as that is, thick or thin; and I can no other”. Poco prima della pubblicazione, l’autore aveva espresso i suoi timori ad un caro amico di famiglia, Father Robert Murray: “I am dreading the publication, for it will be impossible not to mind what is said. I have exposed my heart to be shot at”. Anche l’editore era titubante, considerati i rischi connessi alle forti spese comportate da un lavoro di quella mole; tuttavia egli riteneva che la storia fosse brillante ed avvincente e decise di pubblicarla, scrivendo che se gli adulti non avessero ritenuto sconveniente leggerla, molti si sarebbero senza dubbio divertiti. All’uscita della trilogia non mancarono le critiche, ma il successo ottenuto, del tutto inaspettato, sorprese piacevolmente Tolkien e fu per lui anche in seguito continuo motivo di conforto e soddisfazione. Ciò che accadde in breve tempo, però, fu quello che egli stesso descrisse ad un lettore: “Being a cult figure in one’s own lifetime I am afraid is not at all pleasant. However I do not find that it tends to puff one up; in my case at any rate it makes me feel extremely small and inadequate. But even the nose of a very modest idol […] cannot remain entirely untickled by the sweet smell of incense!” W. H. Auden rispecchiò in modo molto aderente alla realtà la sorte subita dal Lord of the Rings quando scrisse queste parole: “Nobody seems to have a moderate opinion; either, like myself, people find it a masterpiece of its genre, or they cannot abide it”. H. Carpenter completa la frase affermando che questo era il destino che Tolkien fu costretto a subire per il resto della sua vita: lodi estreme da una parte, disprezzo totale dall’altra. Ad oggi, l’inventore della Terra di Mezzo continua ad attirare molte critiche, ma anche ad affascinare una vasta gamma di lettori. A questi si sono poi recentemente aggiunti numerosi ammiratori occasionali, attirati dal successo cinematografico del film di Peter Jackson e buona parte dei quali ignora persino chi era John Ronald Reuel Tolkien, ossia un professore di Lingua e Letteratura Anglosassone all’Università di Leeds dal 1920 al 1925 e successivamente all’Università di Oxford, con la cattedra Rawlinson and Bosworth di Anglosassone dal 1925 al 1945 e la cattedra Merton di Lingua e Letteratura Inglese dal 1945 al 1959. Egli era inoltre, nella sfera più intima e vera, un fervente cattolico e un tenace antimoderno. Da insigne filologo qual era, aveva partecipato a molte conferenze con diversi interventi eruditi, racchiusi in un volume pubblicato postumo a cura del figlio del professore e che nella traduzione italiana è di recentissima pubblicazione, segno dello scarso interesse per quest’aspetto poco commerciale di colui che è meglio noto (e vendibile) come autore del Lord of the Rings. Di questi scritti fa parte il saggio On Fairy-stories, tradotto in forma migliore per l’occasione, ma già pubblicato nel volume Tree and Leaf, unitamente al racconto Leaf by Niggle. In questa sede si vuole procedere all’interpretazione dei due testi racchiusi in Tree and Leaf, dai quali traspare un aspetto meno noto, ma di fondamentale importanza, del professore. Il primo è, infatti, una meditazione teorica sulle fiabe e sul racconto fantastico, mentre il secondo è un esplicito tentativo di tradurre dette riflessioni in un’opera narrativa. Lo scopo è di mettere in luce ciò che sta alla base della più nota produzione tolkieniana, sì da osservare l’autore in un’ottica diversa da quella che lo vede unicamente come creatore di un mondo immaginario. Alla base della scelta del titolo Il Processo creativo di J.R.R. Tolkien: dal seme alla foglia c’è la passione dell’autore per gli alberi e la definizione che egli diede del Lord of the Rings, “my internal Tree”, che, insieme al titolo da lui stesso scelto per il volume Tree and Leaf, hanno indotto alcuni critici a continuare ad utilizzare la simbologia dell’albero e della foglia appunto. In particolare E. Lodigiani ha paragonato la produzione tolkieniana al ciclo vitale di un albero: The Hobbit è il primo germoglio, che darà i suoi migliori frutti con il Lord of the Rings e infine perirà con un breve racconto, Smith of Wotton Major; il Silmarillion costituisce la terra, l’aria e l’acqua da cui tutte le sue creazioni prendono sostanza. P. Kocher, invece, ha inserito nel suo Master of Middle-Earth un capitolo intitolato Seven Leaves, in riferimento ai brevi racconti connessi al grande Albero. In questa sede, il saggio On Fairy-stories è il seme che ha dato vita all’Albero, ossia le riflessioni e le credenze di Tolkien, che stanno alla base della sua scelta narrativa; mentre il racconto Leaf by Niggle è la foglia che da Esso emerge, come germoglio infine realizzato, racchiudente in sé l’essenza di tutta la pianta. Scarica la Tesi Completa [141 pag - 561 Kb]